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29 novembre 2016

Saronno, 16/17/18 Dicembre Abbattere le frontiere, tre giorni di discussioni e iniziative sul territorio




Pubblichiamo qui di seguito due testi scritti come contributo e spunto per le discussioni su deportazioni e seconda accoglienzaa (qui la versione stampabile dei testi, qui quella del manifesto)

DEPORTAZIONI

Dalle frontiere ai CIE, i vari Stati europei mettono in campo nuove forme di spostamento e controllo delle persone che vogliono ridurre a merce-migrante.
Da un lato le espulsioni e i rimpatri, frutto di oculati accordi politici ed economici tra Stati, dall’altro il continuo e ripetuto spostamento dai territori di frontiera, verso i vari centri hotspot del sud Italia, ulteriore luogo di differenziazione e smistamento di chi viaggia senza passaporto.
Possiamo quindi osservare lo stabilizzarsi di un sistema che agisce sul controllo dei flussi migratori, trattando questi individui come oggetti che vengono ammassati in luoghi di confine, catalogati e filtrati a seconda della domanda e dell’offerta del Capitale: migrante economico o semplice profugo, funzionale o non funzionale, possibile schiavo di riserva o semplice merce avariata da rispedire al mittente. Avvenuta questa prima classificazione, i selezionati vengono quindi ridistribuiti chi nel circuito dell’accoglienza, chi in quello dell’espulsione.
Di questa seconda categoria una parte consistente viene rilasciata sul territorio statale con decreto d’espulsione alla mano, in attesa di un nuovo possibile utilizzo che sarà senz’altro agevolato dall’estrema ricattabilità che queste persone subiscono all’interno di questo loop di respingimento (in frontiera) e internamento (negli hotspot).
È necessario leggere questo fenomeno come un’applicazione su scala umana dei rimodellamenti strategici del sistema capitalista, al fine di distruggerlo.
Molte sono le analogie riscontrate tra lo spostamento delle merci e quello della gente.
Aziende come Frontex (ora Guardia Costiera e di Frontiera Europea), con la complicità di Polizia e CRI, seguono e monitorano il flusso delle persone migranti sin dal loro arrivo dalle coste del nord Africa o dal medio Oriente: dal loro accompagnamento forzato nei centri, alla loro identificazione, al prelievo delle impronte digitali, al tracciamento di chi emigra nell’UE tramite la subdola pratica della relocation, al rimpatrio di rifugiati politici in stati terzi non sicuri.
Ogni impronta digitale estorta in questo processo di oggettificazione dei corpi è inserita in Eurodac, database europeo con base in Lussemburgo, dove vengono stoccate tutte le impronte delle persone migranti identificate all’interno o lungo le frontiere degli stati appartenenti all’UE. Il tutto viene presentato come norma di prevenzione al pericolo: la libertà di movimento di chi vive la clandestinità è pericolosa, il fatto che possa richiedere asilo in più paesi è pericoloso.
Nei progetti gestionali di questo nuovo capitale umane, nella sempre più serrata applicazione di questa logistica dei corpi, rientra anche la tecnologia RFID, cioè l’assegnazione ad ogni persona migrante di un badge con microchip che faciliti la localizzazione, e quindi il monitoraggio degli spostamenti e l’identificazione rapida.
Questo sistema gestionale rimanda, neanche troppo lontanamente, a quello usato per la classificazione degli internati nei campi di concentramento della Germania nazista, sistema che a suo tempo fu sviluppato da IBM.
Questo tipo di tecnologia, sviluppato inizialmente in ambito militare durante la seconda guerra mondiale, oggi lo si ritrova applicato ad ogni forma di logistica commerciale, dallo stoccaggio allo spostamento dei prodotti, agli antitaccheggio, ai sistemi di pagamento, fino ad arrivare ad utilizzi civili tra i quali sistemi bibliotecari, registri nelle scuole, tessere sanitarie etc.
L’analogia fra uomini e merci, sempre più evidente, si riflette quindi su vari aspetti, da quelli più propriamente materiali e logistici, ad altri che potremmo definire linguistici o immaginifici.
La collaborazione tra Stato ed enti privati offre un immaginario più tollerabile ed edulcorato di quella che altrimenti sarebbe una pratica militare, attraverso la quale emergerebbe agli occhi di tutti la natura disumanizzante e coercitiva dell’apparato statale. Quale sarebbe il clima percepito nel vedere queste persone caricate e trasportate su mezzi dell’Esercito, piuttosto che a bordo di anonimi pullman (Rampinini) di aziende ben integrate nella cosiddetta società civile?
Di più. Offrire appalti ad agenzie private muove capitali e crea lavoro, rinsalda la connivenza tra Stato e padroni, che inseriti in questa dinamica di sfruttamento, si rafforzano e legittimano reciprocamente.
Grazie a questo approccio si costruisce ed utilizza un linguaggio che parla di spostamento invece che di deportazione. Distorce la percezione del reale, avvalora la rappresentazione di uno Stato capace di risolvere delle emergenze, distogliendo l’attenzione dal processo di frammentazione sociale che mette in atto.
Non ci sembra così lontano dal meccanismo per il quale termini come flessibilità sostituiscono parole come sfruttamento.
Altri attori di questa strategia di ricostruzione linguistica e immaginifica, sono tanto i classici media, quanto associazioni come Caritas e CRI.
Viene così costruita una narrazione dove i migranti risultano essere individui privilegiati, anteposti ai cittadini italiani. Tutta questa propaganda razzista, atta a fomentare la guerra tra poveri, è spinta dai media e dalla stampa ma con l’appoggio diretto e complice delle sopracitate associazioni. Dietro alla loro maschera bonaria e caritatevole si nasconde l’ennesimo tentativo di controllo e gestione. Divulgando strumentalmente i dati sulla quantità dei soggetti accolti e ospitati nei vari centri, dei pasti serviti, e l’aumento di cittadini italiani che richiedono aiuto rispetto a chi non lo è, aiutano a creare quel clima d’emergenza che porta odio e tensioni, distogliendo l’attenzione da chi di odio e tensioni si serve per meglio controllare lo stato attuale delle cose.
A fronte di queste riflessioni, sicuramente parziali, vogliamo interrogarci sulla possibilità di inceppare questi meccanismi e rendere evidenti la miseria della mercificazione dell’essere umano quanto la brutalità del suo controllo.

SECONDA ACCOGLIENZA

Nei mesi scorsi ci siamo trovati ad affrontare discorsi ed esperienze che riguardano il sistema della seconda accoglienza e il rapporto instaurabile con le persone inserite in queste strutture. Sono nati interrogativi molto ampi e spesso scivolosi, considerando la visione nostra del mondo che ci circonda.
Il primo luogo che un migrante conosce, appena arriva in Italia, è l’hotspot. Attualmente ne sono attivi 5 : Trapani, Pozzallo, Lampedusa, Porto Empedocle e Taranto.
La loro funzione è quella di raccolta dati quantitativa e qualitativa sulle persone migranti ed il loro smistamento nei centri sparsi per il territorio.
L’hotspot, tappa forzata e necessaria al controllo del flusso migratorio, assume una funzione analoga a quella di un centro logistico.
L’intero sistema è basato su requisiti specifici, paese di provenienza e accordi internazionali, che le persone devono avere per accedere all’iter che dovrebbe concedere la permanenza sul suolo italiano. L’attesa, in condizione semi-detentiva, può durare anche anni e le persone attendono una decisione arbitraria che viene presa sulla base di convenienze economiche e politiche.
La carta è solo carta? Certo. Ma è possibile per chiunque prescindere dall’avere un documento in un simile sistema?
Ci siamo chiesti se sia possibile fare in modo che nei nostri territori ci siano le condizioni per permettere alle persone di sfuggire al sistema dell’accoglienza, e decidere di fare a meno di un pezzo di carta.
Nei centri di seconda accoglienza (CAS, SPRAR e CARA), quasi sempre situati in luoghi isolati e controllati da telecamere, gli “ospiti” sono obbligati a rispettare degli orari di uscita e di rientro; non hanno possibilità di svolgere alcuna attività se non ricreativa all’interno del centro; l’insegnamento della lingua, quando previsto, è approssimativo e privato di ogni interazione con l’esterno, volto quindi al mantenimento dell’isolamento. La fornitura di cibo è spesso scadente e vissuta in maniera passiva; viene trascurato l’aspetto igienico delle strutture, all’interno delle quali non vengono comunicate nemmeno informazioni di carattere generale (per esempio come fare in caso di bisogno di cure mediche).
In sostanza le persone si trovano come pesci in un acquario, succubi di un processo di infantilizzazione: vengono trattate come incapaci di prendere decisioni e autodeterminarsi.
Di conseguenza le proteste messe in atto riguardano rivendicazioni più o meno parziali, come la qualità del cibo o l’accelerazione della burocrazia per l’ottenimento del permesso di soggiorno.
Ci chiediamo se e come è utile sostenerle. Ci troviamo di fronte ad un bivio che presuppone visioni differenti.
Quali sono i limiti nel sostenere delle proteste parziali? Considerando anche la possibilità (e il rischio) di doversi relazionare con le istituzioni.
Possono essere un punto di partenza utile per instaurare delle relazioni, oppure solo un approccio scivoloso che rischia di presentarci per quello che non siamo, legittimando l’esistenza di questi spazi. Non crediamo nell’istanza della “buona accoglienza”, ma ci rendiamo conto dell’empatia che si può provare nei confronti di persone che vivono in simili condizioni.
Se l’obiettivo è la distruzione del sistema accoglienza, come si possono fare i conti con le condizioni effettive in cui vivono i migranti nei centri?
C’è da considerare inoltre il ricatto interno ed esterno. Da parte dei gestori è la minaccia di esclusione dal sistema sulla base di comportamenti non graditi. Da fuori, complici i media, la costruzione di una narrazione per cui i migranti diventano individui privilegiati in una guerra tra poveri e devono sentirsi grati e fortunati, delegittimando così a priori una qualsiasi possibilità di protesta.
Per fare un’analogia consideriamo il carcere: un luogo da distruggere, all’interno del quale i detenuti mettono in atto proteste per migliorare le loro condizioni, ma noi ci sentiamo ugualmente di sostenerle da fuori. Il discorso è equiparabile?
Visto il paragone e i nodi da sciogliere, ci siamo interrogati sulla possibilità che la centralità delle pratiche fosse il nodo cruciale della questione.
Ma è sufficiente non perdere di vista l’obiettivo?



11 novembre 2016

Testo di un manifesto affisso in Val di Fassa

A proposito del tentato incendio a Soraga



Sarà il caso che chi continua a considerare il Trentino una sorta di “isola felice” cambi in fretta parere. Tra le dichiarazioni ufficiali ‒ rassicuranti e ipocrite insieme ‒ e ciò che ribolle nella società c'è un profondo scarto, soprattutto nelle valli.
Se il tentato incendio di un hotel a Soraga contro l'arrivo di una trentina di immigrati è per il momento un'azione isolata, sarebbe da incoscienti non notare che essa raggruma sentimenti ben presenti in una parte della popolazione. Spesso ciò che trattiene dal mettere in pratica chiacchiere e propositi razzisti da bar non è un residuo di scrupolo morale, bensì la vigliaccheria e l'incapacità di organizzarsi. Basta allora che dei gruppi fascisti o leghisti sappiano soffiare abilmente sul fuoco perché il crescente rancore sociale si indirizzi verso il capro espiatorio di turno: lo straniero povero. 


La Val di Fassa, soprattutto fra Predazzo e Canazei, è una delle zone più ricche d'Europa. La monocultura del turismo ha corrotto non solo l'ambiente, ma anche gli animi. Sono migliaia e migliaia i “foresti” che affollano alberghi, negozi e piste da sci. Foresti abbronzati, con gli occhiali da sole e, soprattutto, con i portafogli gonfi. Mica straccioni che arrivano dall'Africa, dall'Afghanistan o dalla Siria, i cui volti ci ricordano qualcosa che i nostri nonni conoscevano molto bene e che noi non vogliamo più vedere: la povertà. Ecco ciò che politici e opinionisti vari non diranno mai, e cioè che il razzismo sgorga dal sentimento della merce, della proprietà, del denaro. Incapaci di cogliere le cause per cui milioni di esseri umani sono sradicati dalle loro terre; incapaci di difendere le proprie terre dalla vera “invasione”: quella del cemento e di una vita comoda e privatizzata, è molto più confortevole pensare che il Nemico venga da lontano e parli una lingua diversa.
Ciò che si vende al turista, e che il turista compra, è una bellezza naturale di cui non abbiamo alcun merito e che non abbiamo fatto nulla per preservare. Ben poco di cui andare orgogliosi.
Non illudiamoci di essere una “comunità”. A tenerci insieme sono soltanto chiacchiere e affari, il conformismo e la paura che cali anche solo un po' il nostro reddito.


A differenza di politici, giornalisti e preti, noi non siamo contro la “violenza”. Quello che ci disgusta è che a farne le spese non sia chi specula sulle nostre vite e sulle nostre paure, bensì gli ultimi fra gli ultimi. Non basta riempire una tanica di benzina per diventare “coraggiosi”. Non c'è nulla di più vigliacco che prendersela con chi ha ancora la guerra e la morte negli occhi (e che non ha certo scelto di finire in Val di Fassa). Anzi, qualcosa di più vigliacco c'è: approvare simili gesti in silenzio o nel chiuso di un bar.


abbattere le frontiere

06 novembre 2016

Volantino distribuito, il 2 novembre, all'interno della facoltà di Sociologia di Trento in occasione del corso sulla cosiddetta accoglienza ai profughi.

Quando finiscono crediti e applausi

Karl Kraus scriveva che il nazismo è la frase fatta in azione, la chiacchiera da
bar o da autobus che si organizza. È quello che è accaduto in un piccolo paese
del ferrarese, dove dodici donne immigrate sono apparse come il nemico da
fermare; è quello che è accaduto qualche giorno fa a Soraga, in Val di Fassa,
dove per impedire l'arrivo di una trentina di immigrati qualcuno è ricorso
all'incendio di un hotel. Episodi simili si vanno diffondendo in Italia e in Europa.
Mentre i padroni impongono misure economiche e politiche ogni giorno più
draconiane senza incontrare alcuna resistenza, il crescente rancore sociale si
indirizza verso gli stranieri poveri, capro espiatorio del malessere collettivo.
Mentre si continua a sostenere che la storia sia maestra di vita, tanti nostri
contemporanei abboccano allo stesso amo avvelenato.
L'organizzazione di corsi per formare studenti al volontariato nella cosiddetta
accoglienza dei profughi sembrerebbe andare in direzione contraria.
Ma è davvero così?
Filo spinato, campi di concentramento, retate della polizia, “centri di
accoglienza” sono in realtà elementi complementari per selezionare
manodopera ricattabile e a basso prezzo. A questo serve l'ipocrita distinzione
tra “profughi” e “migranti economici”: a scegliere quale materia umana integrare
nelle maglie dello sfruttamento e quale respingere come merce avariata. Non
solo sui profughi si è costruito un gigantesco affare, ma si usa la loro presenza
per abbassare ulteriormente le condizioni di lavoro. Anzi, per imporre la
mentalità secondo la quale essere pagati per lavorare è già un privilegio. Ecco
allora i profughi mandati a raccogliere gratis la merda dei piccioni per le strade
di Rovereto. Ecco i tirocini gratuiti presso le aziende a cui abituare gli studenti
medi. Ed ecco, nel caso di SuXr, il mercanteggio fra crediti universitari e 100
ore di volontariato nella cosiddetta accoglienza. Quando certe forze politiche
rivendicano i “lavori socialmente utili” (gratuiti o pagati due euro l'ora) per i
disoccupati italiani e non per i profughi rivelano esattamente qual è la tendenza:
la stessa che produsse i campi di lavoro nella Germania degli anni Trenta.
Ma poi, siamo così sicuri di essere noi i buoni?
Espulsione e integrazione si basano sulla stessa mentalità coloniale. “Già li
accogliamo: che imparino le regole della convivenza, non protestino e dicano
grazie”. Chi protesta viene immediatamente espulso dai progetti della
Provincia, come è successo un po' di mesi fa a nove immigrati “rei” di aver fatto
un blocco del traffico per dire la loro sulla cosiddetta accoglienza.
Se queste donne e questi uomini arrivano qui da noi non è perché noi siamo
buoni, ma perché abbiamo distrutto le loro terre.
Senza interrogarci profondamente sulle cause dell'attuale esodo di massa ‒
che solo in percentuali ridicole tocca l'Europa ‒ metteremo a tacere le nostre
coscienze (e, già che ci siamo, guadagneremo qualche credito), diventando
tutt'al più la ruota di scorta “umanitaria” della macchina capitalista.
Se invece vogliamo scendere dal nostro piedistallo coloniale, cominciamo a
dirci e a dire che siamo complici delle guerre e degli altri disastri fatti in nome
nostro nella misura esatta in cui non facciamo nulla per impedirli.
Da cosa si capisce se cominciamo davvero a mettere in discussione i nostri
miserabili privilegi? Dai grandi risultati immediati? No, dal fatto che smettono
applausi e crediti istituzionali.

abbattere le frontiere